venerdì 3 dicembre 2004

Presentazione del libro: Caro Hillman... Venticinque scambi epistolari con James Hillman, Catania Biblioteche Civica Ursino Recupero




A cura di 
Riccardo Mondo e Luigi Turinese

Bollati Boringhieri, Torino, 2004
3 Dicembre 2004Sono intervenuti:

Pietro Barcellona
Fulvio Giardina
Riccardo Mondo
Giuseppe Russo
Elvira Seminara
Luigi Turinese
Letture epistolari di:

Mariella Lo Giudice

Ospiti:

Franco Battiato e Manlio Sgalambro, autori di un contributo epistolare.














Caro Hillman: la recensione di Luciana Sica

Caro Hillman ti scrivo

Lettere a un grande eretico

Esce un carteggio tra un gruppo di personaggi della cultura italiana e l’intellettuale americano che ama la provocazione e la sorpresa Il dissenso prevale sull’ammirazione per il maestro che ha radicalmente messo sotto accusa la psicoanalisi.
Viene messa in discussione l’identità dell’inventore della “psicologia archetipica”
C’è una polifonia di voci anche molto contrastanti che percorre il mondo dei nipotini di Jung
Alcuni personaggi della psicologia analitica e della cultura italiana scrivono a James Hillman, la figura senz’altro più carismatica – anche se molto controversa – dello junghismo contemporaneo: le venticinque lettere, accompagnate dalle risposte del destinatario, sono state raccolte in un libro dal titolo Caro Hillman?, per la cura intelligente e fantasiosa di Riccardo Mondo e Luigi Turinese (Bollati Boringhieri, pagg. 240, euro 26).
È un volume che interessa, per più di una ragione. Intanto, attraverso questo carteggio, si coglie con grande immediatezza la polifonia di voci – assai poco assimilabili tra loro – che percorre l’universo junghiano. Emergono, dall’epistolario, due tendenze che già coesistono in Jung, pensatore geniale ma disordinato e asistematico, contraddittorio e pieno di aporie: una è decisamente critica, ermeneutica, probabilista; l´altra sembra cadere nell’illusione di una psicologia perennis, di una psiche in qualche modo oggettiva, valida e identica per tutti, con un eccesso di enfasi – ad esempio – per quella ipotesi suggestiva ma enigmatica, nebulosissima, che è l’inconscio collettivo.
Oltre a disegnare una mappa curiosa dello junghismo italiano, questo libro sottende costantemente nelle sue pagine un interrogativo – sospeso e irrisolto – che rimanda all’identità più autentica del maestro di Atlantic City.
Chi è infatti oggi James Hillman? Si sa che, a Zurigo, è stato un allievo diretto di Jung, ma – dopo quella che lui stesso ha definito «una crisi di fede – è diventato l’inventore di un nuovo pensiero, di una sua disciplina detta “psicologia archetipica”, ribattezzata frettolosamente e a dispetto del ridicolo “una terapia con gli dèi”.
Oggi non è chiaro se Hillman si possa ancora in qualche modo considerare uno psicoanalista, per quanto eterodosso e da molti anni lontano dalla pratica clinica, o sia piuttosto un raffinatissimo letterato, un intellettuale neoplatonico (amatissimo dagli intellettuali, e dai molti che suppongono di esserlo), un cantore neopagano di cui poco o nulla è rimasto dell´imprinting originario: «un brillante bricoleur», per dirla con Augusto Romano.
In queste lettere inviate a Hillman, può sorprendere che in genere sia il dissenso a prevalere sull’ammirazione. Quella di Mario Trevi, firmata con Marco Innamorati (insieme hanno scritto Riprendere Jung), è una presa di distanza, sofisticata ma dura già nel titolo, “Contra psychologiam archetypalem”, una messa sotto accusa delle tesi più ardite di Hillman: dalla lettura che fa dei classici alla pretesa di parlare ancora di un’ontologia dell´anima, al rifiuto drastico di ogni modello medico.
Nella sua risposta, il grande provocatore americano – che a tratti tende ad assumere un’aria sussiegosa un po´ irritante – sfugge abilmente alle questioni più sottili. «Un freddo vento del Senex soffia da nord, e potrei essere indotto a focose esagerazioni del Puer come difesa?»: Hillman non cade in questa tentazione, e del resto sarebbe poco convincente contrapporre a un presunto atteggiamento senile il suo spirito da eterno fanciullo, anzi il suo metodo ermetico/mercuriale che «si avvale di trucchi, inganni, appropriazioni e non vuole stare da qualche parte a combattere, ma fugge nell´invisibilità su scarpe alate in conformità con i suoi alati pensieri avvolti in “può darsi”, “forse” e “come se”»?
La sensazione è che il comune ceppo junghiano non basti ad accorciare le distanze: Hillman e Trevi non potrebbero essere più sideralmente lontani, a cominciare dai linguaggi che utilizzano. «Che cosa abbiamo da dirci l’un l’altro?», si chiede Hillman con una qualche brutalità, concludendo in modo scarsamente dialettico: «Due sentieri paralleli, non importa quante miglia possiamo percorrere, non si incontreranno mai. Forse fianco a fianco è abbastanza».
Molto spiritosa, ma per nulla rapita dal pensiero dell’autore di Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio, risulta Silvia Vegetti Finzi: lei ha tradito la psicoanalisi, gli scrive, «nel senso in cui l’amante tradisce l’amata per troppo amore? Lei affida alla psicoanalisi nientemeno che l’incarico di salvare il mondo? Ma siamo sicuri che la psicoanalisi abbia il compito di prendere il posto di Dio: di sapere tutto, di potere tutto?».
Se qui lo scambio è meno glaciale, la possibilità di un dialogo autentico rimane piuttosto remota. Il punto è che alle “regole” della clinica psicoanalitica Hillman è estraneo fino all’insofferenza, e non ha alcuna difficoltà a dichiararsi colpevole dell´accusa di essere un traditore. Non è la stanza d’analisi a interessarlo, non sono i piccoli o grandi malesseri di pazienti in cerca d’ascolto a catturarne l’attenzione. Il suo impegno ha dimensioni molto più ampie, più ambiziose: lui si dedica a «stendere l’anima del mondo sul lettino e a rimanere in ascolto delle sue sofferenze». È questa immagine a catturarlo, o anche, con un’espressione che gli è cara: è questo il suo daimon.
Alla fine, da raffinatissimo giocoliere qual è, ritorce con abilità l’accusa di tradimento, pure accettata senza sussulti: «Le replico – sempre nello spirito di calore e comprensione tra noi – che la Sua posizione tradisce la sfida contemporanea alla pratica clinica: la sua estensione oltre la stanza di terapia. Traggo questo orientamento sia da Freud sia da Jung, che consideravano il loro lavoro un lavoro sui tempi e sulla cultura collettiva in cui la psiche era immersa».
Spulciando ancora tra le molte lettere di questo carteggio, più incline alla perplessità che all’elogio appare anche Marcello Pignatelli, che – seppure con garbo amichevole – segnala il rischio di una deriva estetizzante. Come sempre Hillman si diverte soprattutto a spiazzare, e in questo caso lo fa rievocando una bella serata romana di anni fa proprio nella casa di Pignatelli, il “collega” junghiano involontariamente caduto in un fraintendimento comune.
«Quando tu mi hai ricevuto lì, con vino, cibo e conversazioni, ponendo attenzione ai bisogni di un visitatore straniero? questo tuo comportamento apparteneva all’etica o all’estetica? Conosci bene la tradizione classica, da Platone in poi, in cui Estetica ed Etica erano inseparabili. Entrambe sono contenute nella parola Kosmos, che significa giusto ordine, implicando sia la bellezza sia la giustizia»: per Hillman, la divisione tra queste due nozioni può risultare, oltre che falsa, dannosa per entrambe «poiché priva il mondo dell´estetica di ogni moralità e il mondo morale di ogni sensibilità». Dal suo punto di vista, l’insistenza sul bello avrebbe di per sé una connotazione di ordine etico.
Sarà il caso di fare almeno un cenno allo scambio affettuosissimo che in questo libro si rintraccia tra Manlio Sgalambro e Hillman sulla condizione della vecchiaia, un tema su cui entrambi si sono esercitati con risultati brillanti. Il filosofo gli ha inviato una sua poesia che si conclude con questi versi:

«Il vecchio è colui nel quale la vita è finita. Ma quale vita? La vita funzionale, la vita dei ruoli, la vita che passa attraverso il “permesso” di vivere concesso dalla società a certi patti. Ma è dopo tutto questo che resta la “vita”. La bellezza del vivere per nessuno scopo, del vivere per vivere».

La replica di James Hillman è – almeno in questo caso – nel segno dell’entusiasmo: «Quanto più, quanto più squisite, quanto più apportatrici di verità sono le strofe della Sua poesia rispetto al mio intero libro sull’invecchiare!». L’epilogo si riassume nell’invito di un signore forse stravagante ma dallo charme innegabile, che prende congedo con poche semplicissime parole, impronunciabili per certi geometri della psiche: «Posso incontrarla un giorno nel Suo caffè preferito?».
Pubblicato su La Repubblica, 03/12/2004

mercoledì 1 dicembre 2004

La recensione: C.G.Jung. Immagine e parola.


a cura di Aniela Jaffé
Magi Edizioni
Roma 2003
pp. 242
In un panorama culturale poco incline alla valorizzazione delle radici storiche della psicologia analitica, ogni operazione editoriale che miri a preservare tracce della memoria si presenta decisamente innovativa. Si è quindi grati alle Edizioni Magi per la traduzione in lingua italiana di questo emozionante omaggio a Carl Gustav Jung, curato daAniela Jaffé, edito in Germania nel 1977 con il titolo originario C. G. Jung. Bild und Wort e pubblicato quasi contemporaneamente in lingua inglese dalla Princeton University Press, Princeton (NJ, USA). Sono trascorsi appena ventisei anni per averne una traduzione in lingua italiana e questo è un altro elemento a favore di questa operazione editoriale. Quanto detto aprirebbe un complesso discorso sul rapporto della psicologia analitica odierna con la propria produzione storiografica e documentaristica, ma torniamo al libro che è oggetto della nostra recensione.
La quarta di copertina recita che “per gli junghiani questo volume è come un album di famiglia le cui immagini consentono di evocare atmosfere, persone, oggetti, pensieri, luoghi in qualche modo noti”. Quanto affermato ci pare condivisibile; per poterne gustare la proposta è adeguata la lettura intimistica di chi rilegge documenti e sfoglia lettere e foto di un proprio antenato.
Al primo contatto con il libro esso si presenta atipico ed inconsueto, il formato e lo stile grafico lo rendono adeguato soprattutto ad una consultazione immaginale ed evocativa, intimamente fedele al valore che Jung consegnava all’immagine psichica. Il volume infatti è riccamente illustrato da 205 immagini, tra le quali vi sono 11 dipinti dello stesso Jung. L’originalità consiste proprio nella sintesi tra le molte immagini – ritratti fotografici, dipinti, manoscritti, luoghi e scene di vita quotidiana – tratte dalla mostra organizzata a Zurigo in occasione del primo centenario della nascita del Maestro (1975), e i testi, ricavati in larga parte da Ricordi, sogni, riflessioni, raramente dagli scritti scientifici delle Opere e da lettere, alcune delle quali inedite. Su questa scia potremmo dire che, al contrario della norma, ogni capitolo affronta un tema dove testi essenziali ed evocativi corredano questa biografia per immagini.
Fedele al progetto celebrativo del centenario, l’opera è un omaggio ricco di sentimento a Carl Gustav Jung e nel leggerlo si avverte, in chi l’ha ideato e realizzato, la fedeltà e la congruenza intellettuale rispetto al modello di ricerca proposto dal fondatore della Psicologia Analitica. Il limite è l’evidente elemento agiografico che rischia di non poter attrarre, tra gli addetti ai lavori, se non chi ama profondamente Jung e la Psicologia Analitica.
Disinteressati rimarranno i “cercatori delle ombre di Jung”, in quanto il volume non presenta un impianto critico e dialettico e non consente quegli insights decostruttivi, che, se abusati, rischiano – come ricorda il detto popolare – di “buttar via il bambino con l’acqua sporca”.
Il libro è composto da diciannove capitoli, un’appendice con la descrizione della personalità di Jung, una cronologia e un glossario. È un procedere temporale da prima della nascita al commiato del Maestro dalla Terra; la matassa della sua vita pare dipanarsi finalisticamente tramite la lente del principium individuationis.
Dal rapporto con gli antenati, si procede agli anni della giovinezza e degli studi, ai primi interessi per l’occultismo e la parapsicologia, al periodo alla clinica Burgholzli, all’amicizia e la rottura con Freud, al confronto con l’inconscio. Questo capitolo drammatico ed intenso si pone come perno centrale nell’opera preannunciando il dipanarsi dei successivi capitoli, rivolti ai temi fondamentali dello Jung maturo: Mandala, Alchimia, Paracelso, Psicoterapia, Traslazione. È sempre affascinante rievocare la grande erudizione di Jung; quest’ultima gli permetteva la conoscenza del dispiegarsi della vita psichica in territori inimmaginabili all’uomo comune. Ad esempio, sul tema alchemico scriverà “L’alchimia è, come il folclore, un grandioso affresco proiettivo di processi di pensiero inconsci. A causa di questa fenomenologia mi sono sottoposto allo sforzo di leggere da cima a fondo l’intera letteratura classica dell’alchimia” (pag. 99).
Ma come ci ricorda la Jaffé in appendice, Jung dedicava pari intensità libidica sia alle esperienze interiori sia all’incontro con eventi esteriori che insieme formavano un indissolubile unicum.
Per questo motivo sono particolarmente affascinanti i capitoli Famiglia e casa (“quando ero occupato con le mie fantasie, mi serviva un punto d’appoggio in ‘questo mondo’”); quello dei Viaggi (il capitolo più ampio del libro) e quello di Eranos.
Eranos si traduce in “festa condivisa” ed in questo clima si realizzarono i Convegni ad Ascona sul lago Maggiore. A pagina 186 è possibile osservare il tavolo attorno al quale si riunivano quotidianamente gli oratori per il momento conviviale. Quando Jung vide questa foto dove nessuno è visibile osservò: “L’immagine è perfetta. Sono tutti lì”. Ricordiamo che a quel tavolo circolare erano presenti studiosi delle più svariate discipline scientifiche oltre che Jung e i suoi allievi.
Questo importante crocevia culturale dell’epoca rendeva concreta la ricerca junghiana di una interdisciplinarietà scientifica sotto il comune tetto dell’Anima Mundi.
Il successivo capitolo sulla Torre rende evidente quanto l’opera “dell’architetto” Jung sia stata una condensazione materiale della sua ricerca scientifica, appunto “una professione di fede in pietra”, come egli amava definirla. Questi capitoli paiono presentare quegli elementi del pensiero di Jung che diverranno una traccia per quella psicologia analitica che si orienterà per sviluppare “una psicologia del profondo dell’estroversione” (cfr.Hillman).
Gli ultimi due capitoli riguardano il tema della religione e della morte e ci mostrano le immagini di un uomo vecchio e carico di saggezza che si confronta con i grandi temi dell’esistere.
Scriverà in una lettera“ La mia raison d’ètre consiste… nel confronto con l’ente indefinibile che è chiamato Dio” (pag. 209).
Difficile commentare o aggiungere altro, il libro va riposto nella libreria e ogni tanto ripreso per meditarci su, senza pregiudizi.
Recensione pubblicata su “Studi Junghiani”, n. 20, FrancoAngeli, Luglio – Dicembre 2004